Beatrice Carta: la mia nuova vita catalana

Una delle giocatrici sarde più vincenti di sempre si racconta da Barcellona.
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Ha incantato i parquet italiani e internazionali sin da adolescente, da quando ha esordito in serie A2 (con la Virtus Cagliari) a soli 14 anni, e con la Nazionale, con la quale ha vinto l’oro agli Europei under 18 e l’argento agli Europei under 16. Poi il grande salto in A1, prima con il Cus Cagliari e poi con la Dike Napoli, disputando con quest’ultima una semifinale playoff e l’EuroCup. Da due anni e mezzo a questa parte il suo palmares si è arricchito di 2 Coppe Catalunya, vestendo i colori del Barça in Liga Femenina 2 (l’equivalente della serie A2) a Barcellona. La nuova vita di Beatrice Carta si alterna tra il catalano (che capisce ma non parla ancora) e il castellano, lingua che ormai ha imparato alla perfezione. 

Credits: Barça CBS

«Volevo fare un’esperienza all’estero, ma la priorità è sempre stata lo studio. Sono riuscita a unire l’utile al dilettevole: un Master in Economia e Finanza, che tra l’altro mi ha permesso di trovare lavoro. Dopo lo stage sono entrata in Puma (tra le aziende leader nel campo dell’abbigliamento sportivo, ndr), dove lavoro come contabile». La vita di una delle giocatrici sarde più vincenti ancora in attività si svolge ancora tra allenamenti fino a notte fonda e un lavoro che le piace, in una città aperta e cosmopolita. «Mi trovo benissimo, anche qui è tornata un po’ di normalità dopo l’avvento della pandemia». Il lockdown l’ha trascorso da sola, tra videochiamate infinite e prove in cucina (si è specializzata con la paella). Tornare in Italia? «È una possibilità», ammette la play cagliaritana, «sarebbe anche un modo per rivedermi più spesso con mio fratello e mia sorella. Con lei specialmente, c’è l’idea di fondare, prima o poi, un’azienda». Chiamate da qualche squadra italiana? «In questi anni sì». La Dinamo (A1 femminile) ti ha chiamata? «No». Se ti chiamasse? «Mi farebbe piacere».

Il quesito sulle differenze tra il basket giocato in Spagna e in Italia è d’obbligo. «L’A2 spagnola è molto competitiva, possono giocare ben tre straniere ma le giovani locali sono super seguite e hanno minutaggio. In generale, il basket femminile è ancora molto sottovalutato in termini di visibilità, e c’è il divario retributivo. Così come in Italia, dove in serie A1 le atlete non sono considerate professioniste. Anche per questo, non ho mai cercato di intraprendere una carriera orientata esclusivamente al basket. Certo, gli infortuni mi hanno condizionata pesantemente come giocatrice, ma ho sempre pensato a costruirmi un futuro ben saldo. E poi ho troppo interessi, non sto mai ferma!»

Credits: Dike Napoli

Quali sono stati i consigli più preziosi che hai ricevuto durante la tua carriera?

«Il primo, puramente tecnico, da Carlo Bonu durante una finale regionale giovanile. Prendo i primi tre tiri e li segno tutti. Carlo chiama time-out e mi dice che giocando da play non posso prendermi i primi tiri della partita, perché il mio ruolo è quello di mettere ritmo alle compagne e coinvolgerle nel gioco. Quelle parole mi hanno illuminato per tutta la mia carriera. Il mio coach attuale, invece, in spogliatoio ci ha detto una cosa che soprattutto a fine carriera, mi accorgo essere una grande verità. Dopo aver vinto una partita importante ci ha fatto riflettere su quel momento, dicendoci che non l’avremmo mai più vissuto un’altra volta, perché ogni anno c’è chi va via, e quella squadra con quelle persone sarebbe stato impossibile tornare ad averla ancora. L’importante, ha aggiunto, non è solo dove si arriva ma il processo, l’importante è il lavoro che comincia in estate e finisce l’estate dopo, i legami interpersonali, quel sacrificarsi insieme per un obiettivo, il percorso che si fa in gruppo».

Il tuo sogno di quando eri adolescente?

«Giocare in A1. Guardandomi indietro, posso dire di aver centrato l’obiettivo! Sono contenta della mia carriera e di dove sono arrivata».

Hai mai avuto dei modelli?

«Sono sincera… no! Non sono mai stata una fan del basket, lo ammetto! Però ho sempre ammirato Gianmarco Pozzecco, per la sua genialità e pazzia, per quel talento disarmante e singolare. Saltavo dalla sedia vedendolo giocare».

Non è un’opinione purtroppo, è un dato di fatto. Il livello generale della pallacanestro, tecnico e tattico, si è abbassato, perché secondo te?

«Penso che ci si concentri meno sui fondamentali, lavori indispensabili nel minibasket e durante il percorso delle giovanili. Sono carenze che poi ci si porta dietro e che sono difficili da colmare quando si cresce. Ritengo anche che la cultura del lavoro sia cambiata. Ricordo che da piccolina mi allenavo con due-tre squadre diverse e ne ero felice. Forse adesso la maggior parte delle ragazzine non ha voglia o tempo di dedicare tante ore al basket, dedicandosi invece ad altre cose?».

Cosa resta di questo sport, dopotutto?

«Le persone. Gli anni a Napoli sono stati meravigliosi, e tuttora due delle mie migliori amiche sono Martina Fassina e Chiara Pastore, mie compagne negli anni della Dike. Tra i coach menzione speciale per Carlo Bonu: con lui ho fatto tutte le giovanili e partecipato a diverse finali nazionali. Vado oltre. La pallacanestro mi ha insegnato tutto. Se oggi mi guardo dentro, so che dietro alla donna che sono c’é una palla da basket. Sacrificio, lavoro di squadra, etica del lavoro, altruismo, leadership. Però soprattutto mi ha insegnato ad avere pazienza, perché i risultati non si raggiungono dall’oggi al domani. Dietro ogni soddisfazione, risultato, vittoria che uno raggiunge ci sono dietro ore di allenamento, fatica e sudore. Ho imparato ad aver fiducia nel processo, nel lavoro quotidiano, e ad aggrapparmi a questo anche quando la vittoria sembra lontana. E questo é qualcosa che ovviamente porto anche nella mia vita extra cestistica, nel lavoro e nei rapporti interpersonali».