Emanuele Rotondo: il basket, un canto di sirene

La storica ex bandiera della Dinamo Banco di Sardegna racconta a cuore aperto il suo rapporto d'amore con la pallacanestro.
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Sassari, 1980, palestra storica “Silvio Pellico”, via Dei Mille. Eccomi pronto, a 5 anni, con le scarpette di tela a calcare il mio primo campo sportivo. L’idea era quella di continuare la tradizione sportiva famigliare: la pallavolo. Non ci fu la scintilla e, tempo una settimana, nella piccola palestra della scuola elementare di fronte a casa, provavo senza molta convinzione un altro sport, ma quella volta fu amore totale. Ancora oggi, dopo 40 anni, non passa giorno senza che parli di pallacanestro, la guardi o la viva quotidianamente in palestra come allenatore. Sono molto fortunato, perché dopo il mio ritiro nel 2011 a quasi 36 anni, dettato da contingenze del periodo ma soprattutto da problemi fisici importanti, ho la possibilità di fare un lavoro che mi piace, allenare a tutti i livelli, in palestra e nelle scuole, bambini, ragazzi, adulti ed organizzare eventi e competizioni a loro rivolti. Quello che dico continuamente loro, soprattutto ai ragazzi più grandi, è di non avere mai fretta di smettere, di non arrendersi se le cose vanno male o non girano, perché successi e fallimenti continui sono parte dello sport a tutti i livelli.

Il mestiere dello sportivo ti toglie e ti dà alla massima potenza ed alla velocità della luce, e tu devi essere bravo a gestire nella maniera migliore le emozioni. Un giorno sei un fenomeno, il giorno dopo non vali più nulla.

Non è facile da gestire a livello mentale. Nello sport di matematico o di scontato non c’è nulla, 2 + 2 non fa sempre 4 e domani non è mai uguale a ieri. Lo dice uno che le emozioni le ha sempre vissute fortissimamente. Per questo ripeto loro di non arrendersi o demoralizzarsi perché giocare e vivere le emozioni del gioco, dentro e fuori dal campo, è un qualcosa che non tornerà più, e tra 20 anni i ragazzi di oggi si ritroveranno a parlare di quello che hanno vissuto insieme, proprio come faccio io ora con gli amici. Eppure da bambino avevo paura, temevo il confronto, le prime partite minibasket  furono un mezzo disastro. I miei genitori a volte dovevano rincorrermi e riacchiapparmi per riportarmi dentro la palestra perché scappavo letteralmente. Ho sviluppato tardi la competizione e l’agonismo, ma dopo averla accettata e assimilata è diventata una droga malefica di cui sono gravemente dipendente anche tuttora. Quello che mi resta sono gli insegnamenti ed il bagaglio di esperienze che mi ha donato lo sport: i miei migliori amici sono ancora i miei primi compagnetti del minibasket, ho vissuto le emozioni, le arrabbiature, le delusioni, le aspettative, le soddisfazioni al massimo del mio potenziale. A volte ho esagerato, mi sono arrabbiato tanto, troppo, mi sono sforzato di non illudermi o esaltarmi eccessivamente nei momenti positivi né di disperarmi oltremodo in quelli negativi. Ma ogni volta ci ricascavo, perché ho sempre considerato il mio lavoro come una grande possibilità e l’ho vissuto al 100% senza mai risparmiarmi o tirarmi indietro.

Sono stato fortunato ad essere stato capitano per tanti anni della squadra della mia città, ho potuto allenarmi in quello che per me era il Madison Square Garden, il Palazzetto (oggi Pala Serradimigni), a 100 metri da dove abitavo, e per me questo ha sempre rappresentato il massimo dei desideri. Ho sempre voluto giocare con la Dinamo ed esserne il capitano, la bandiera, un uomo simbolo, ho sempre desiderato portarla al massimo livello, e per me questa era la carriera migliore possibile, a costo di rinunciare a palcoscenici più prestigiosi e a contratti più importanti, come è successo in varie fasi della mia carriera. La storia però non va sempre come si desidera o come si dice i buoni non vincono sempre sui cattivi, perciò non essere riuscito a giocare in A1 con la Dinamo e non avere potuto vivere da giocatore anni d’oro come questi attuali resta il rimpianto più grande della mia carriera, ma mi conforta la consapevolezza di averci sempre fortemente creduto; accetto quindi che gli eventi su cui non ho potuto avere il controllo abbiano scritto una storia diversa. Mi accontento di pensare di essere stato un giocatore che si è fatto apprezzare e di cui tuttora qualche vecchio tifoso ancora si ricorda.

Non so cosa mi riserverà ancora questa storia d’amore con la pallacanestro, sono curioso di scoprirlo, ci conosciamo molto bene, abbiamo litigato tante volte, ci siamo spesso odiati al punto di esserci anche lasciati. Ma non ho mai potuto starci troppo lontano, come il canto delle sirene sapevo che ogni volta avrei finito per cedere e riabbracciarla.

Non ho volutamente citato persone, aneddoti o episodi, in 20 anni mi servirebbe un’enciclopedia. Dico solo grazie a tutti. Agli amici che mi sono rimasti, alle persone che ho amato e anche detestato, agli errori che ho commesso, tantissimi, sia dentro che fuori dal campo. Ho sbagliato migliaia di tiri, molti anche decisivi, ma ci ho sempre riprovato nell’azione dopo o nella partita successiva. Ho sempre amato prendermi le responsabilità. Ho fatto scelte discutibili e probabilmente preso decisioni sbagliate. Ma le ho fatte io. Con coraggio e con la testa di quegli anni, ed in quel momento mi è sempre parsa la decisione migliore. Un mio amico dice sempre che una persona la vedi da come gioca. Sono d’accordo, è lo specchio della tua personalità. Per quanto mi riguarda non fare o non provare è molto peggio di sbagliare. Per questo, che ancora oggi mi arrabbio se un mio giocatore non ci prova. La pallacanestro è come la vita, non ti puoi mai nascondere. Oggi, da ex giocatore, sono sempre Emanuele, un ragazzo molto timido e spesso insicuro, pieno di dubbi. Di certo lo sport mi aiutato a superare tutte le mie debolezze caratteriali. Non sono mai stato uno che andava a baciare la maglia sotto la curva dei tifosi, anche se vivevo per il loro sostegno, non ho mai amato gli eccessi o mettermi tanto in mostra, ma con quella stessa maglia sudata, la n. 12, ci sono anche andato spesso a dormire, senza che lo sapesse mai nessuno. Cara pallacanestro, per adesso è tutto, ma non ho ancora finito con te. Credo che abbiamo ancora tanto da raccontarci. E chissà che in futuro qualche altro curioso sarà ancora interessato ad ascoltare o leggere qualche altro capitolo della nostra lunghissima, sofferta, travagliata, meravigliosa storia d’amore.