Basta poco per incrociare un destino. Tanto dipende dalla famiglia, così come da un po’ di ironia frutto del caso e di coincidenze. «Mio fratello giocava a basket anche se voleva fare calcio ma non poteva per l’asma, mio padre faceva l’istruttore di pallacanestro ma giocava a calcio. A due anni ero davvero iperattiva, mi han dato un pallone e da lì non l’ho più lasciato andare». La storia tra la palla a spicchi e Marta Granzotto inizia così, fin da quando era quasi in fasce. A 14 anni l’esordio in serie A, poi un susseguirsi di canotte indossate in mezza Italia, tra l’A1 e l’A2. E nel 2020 l’atterraggio in Sardegna, morbidissimo, nelle fila del San Salvatore Selargius. Ripercorriamo con la numero 11 giallonera, nata a Marghera nel 1992, un percorso cestistico che l’ha vista spesso sotto i riflettori, per cui spesso prova imbarazzo a causa di una riservatezza profonda, e che in campo è capace di trasformare in sana follia: a referto con tanti assist, punti e palle recuperate, e divertimento assicurato per chi sta in tribuna. Tanto che alla fine della partita è una delle ultime a rientrare in spogliatoio perché soprattutto le più giovani la cercano, l’abbracciano e le chiedono foto e autografi. Si ferma a parlare, è cortese, poi si rintana nel suo mondo, che abbiamo provato a farci raccontare.
La pallacanestro è sempre stata una passione, poi è diventata una dipendenza. Nel periodo delle giovanili è solo un gioco, poi diventa qualcosa di più, nella pratica è la tua vita quotidiana. Faccio fatica ad allontanarmi da questo mondo perché è ciò che mi ha identificato per molto tempo, è una realtà che mi tiene viva e dà soddisfazioni, ma è anche una pressione costante, è una corsa tutti gli anni, sia fisica sia mentale. Ho già smesso un paio d’anni. La pallacanestro necessita di sfogo ma è essa stessa anche sfogo.
Sarà che sta leggendo in questo periodo L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera ma alla prima domanda, sul suo rapporto con la pallacanestro, ci ha risposto così. E lo sappiamo già, che ritornerete a leggere quelle righe. Marta Granzotto continua: «Forse è stato il basket a scegliermi. Mi sono lasciata trascinare dall’entusiasmo ma non ho mai voluto fare solo la giocatrice, un po’ per ideali famigliari, un po’ perché a lungo andare non è diventato, per noi atlete, un mestiere a tutti gli effetti. E poi, pensare mentalmente solo al basket è un po’ stagnante. Ho sempre continuato con gli studi e lavorato allo stesso tempo».
IL BASKET, LA SARDEGNA E LA PAURA DELL’AEREO
A casa sua, Marghera, fa l’esordio in serie A2, appena adolescente. «La squadra era forte e in più avevo un coach che mi dava tantissima fiducia, Nevio Giuliani». Poi Marta si trasferisce a San Martino di Lupari per due anni, dove guadagna sul campo la promozione in A1 e nella massima serie registra 5.1 punti di media e 5 passaggi in doppia cifra. Dopo Orvieto, anche a La Spezia vince il campionato di A2, poi approda a Vigarano e in seguito ad Alpo. Nel 2020/2021 la prima avventura in salsa sarda, a Selargius, dove si è segnalata come leader e trascinatrice di un gruppo capace di approdare fino alla semifinale playoff dopo aver eliminato la favorita Brixia nonostante lo svantaggio del fattore campo (10 punti di media in 29 gare con un season high di 24 contro la Virtus Cagliari). Nel 2021/22 è tornata ancora nella sua Marghera, per motivi di lavoro, in serie B, facendo registrare 9.5 punti per gara, ma ancora una volta al richiamo della Sardegna non ha saputo resistere.
«E pensare che ho paura dell’aereo, ma è una cosa che ho praticamente superato vivendo nell’isola – confessa -. Prima mi venivano veri e propri attacchi di panico sulle scalette, tanto che un giorno ho rinunciato a una trasferta, proprio in Sardegna». La sorte, sì quella là, o in qualsiasi modo la si voglia chiamare.
Come si fa ad andar via da qua?
La Sardegna è un posto che se ti cattura è la fine.
In quella rete di coste e arcipelaghi, tra cittadine sul mare che forse le ricordano un po’ Venezia, lei si è fatta prendere, consapevolmente. E proprio una volta, davanti a quell’acqua blu, ci aveva detto che la Sardegna è casa, è serenità. Qui fa l’assistente sociale, ed è in procinto di prendere una seconda laurea. «Faccio questo lavoro perché si convive con le persone, si ha sempre a che fare con la materia umana e necessito di confronto costante».
In Sardegna, quindi, è arrivata grazie alla pallacanestro. «La società del presidente Mura mi ha fatto subito una buona impressione, mi sono sentita a casa, non ho dovuto pensarci molto». Sul parquet del PalaVienna ha espresso giocate che le sono valse una popolarità che le atlete donne riescono a stento ad avere. «Oggi c’è una buona visibilità per le donne in generale, finalmente. Anche lo sport femminile ne ha bisogno. A me però la visibilità imbarazza, non riesco neanche a condividere un post su Instagram, perché i social networks per me non sono la realtà. Lì c’è la bellezza e la cattiveria più sfrenata, non è un mondo che mi piace abitare. A me quello che interessa e fa piacere è far passare ai giovani la bellezza del dedicare tempo allo sport, ma anche trasmettere il messaggio che la pallacanestro sia una piccola parte della nostra vita».
Assist no look dietro schiena, passaggi sopra la testa, canestri senza guardare il canestro, ormai l’archivio di fuochi d’artificio è copioso. «Mi piace fare quelle cazzate lì in campo – ride -, le faccio per necessità e incapacità di usare la mano sinistra in certe azioni. Penso sia bello far divertire, questo è il mio modo. Mi piace passare il concetto che il basket sia un gioco di squadra. Non esiste solo il canestro ma anche il passaggio, l’assist o una difesa fatta bene, forse anche un aiuto sul lato difensivo possono far esaltare e fari vincere le partite. Il mio ruolo adesso? Quello di vecchia – ride ancora -, forse a volte rompiscatole, ma solo perché ci tengo».
Sulla soddisfazione più grande non ha dubbi: «Sicuramente l’anno della promozione a La Spezia, non eravamo le favorite, abbiamo fatto registrare solo una sconfitta. Ogni anno è diverso, ci sono anni brutti, dove si lega poco oppure si costruisce un gruppo bellissimo. Quest’anno è mia compagna di squadra Laura Reani, ci conosciamo da 10 anni, è una sorella. Ho costruito rapporti profondi in questo mondo, che terrò e custodirò per sempre».