Su Wikipedia Giulia Rulli è una cestista italiana. Atleta olimpica (Tokyo 2020), medaglia d’oro ai Mondiali Fiba 3×3 di Manila 2018, premiata dal Coni con il collare d’oro al merito sportivo, con una lunga esperienza tra la serie A2 e l’A1. Una carriera da giocatrice di pallacanestro che continua anche a cavallo dei trent’anni per ‘Ruls’, nata a Roma nel 1991, quest’anno in forza al Basket Club Castelnuovo, tra le candidate alla promozione in A1. Ma Giulia Rulli è molto altro e di più.
Mind the Sport
Lo sport procede di pari passo col percorso di studi. E proprio in Sardegna si iscrive all’Università. A Cagliari, dove si accasa alla Virtus (A2), inizia la triennale in “Scienze tecnologiche e psicologiche”, poi consegue la magistrale alla Cattolica di Brescia, si specializza con un “Master in sport e intervento psicosociale” alla Cattolica di Milano e approfondisce anche il mondo del mental training. Da un anno e mezzo lavora come psicologa dello sport, aprendosi a varie collaborazioni: la Primavera dell’Alessandria calcio, l’Elite Basket Roma. È un lavoro eclettico, che comporta avere a che fare “con persone che oltre a essere sportivi vivono più contesti, quello famigliare, scolastico, in alcuni casi lavorativo. Sembra scontato, non lo è. La persona a 360° è quello che conta di più. Siamo umani, siamo relazioni. Con l’Alessandria lavoravo a bordo campo, con l’Elite ho partecipato a camp estivi e percorsi di formazione per avvicinare i ragazzi al tema dell’allenamento mentale. Si lavora sulle aspettative e sulle qualità dell’atleta, sulla reazione all’errore”.
Come spiegare una professione che in Italia ancora non è valorizzata? Un mese fa Rulli apre su Instagram il profilo Mind the sport, “con l’obiettivo di raccontare questo tema, a me caro sia come giocatrice sia come professionista, e ancora di nicchia, anche perché c’è uno stigma che non porta a rivolgersi consapevolmente e naturalmente a una figura professionale del genere.
In Italia la psicologia dello sport è un ulteriore specializzazione, negli Stati Uniti invece è un corso di laurea vero e proprio. La figura è presente fin dal college, questo perché in America la cultura prevalente è quella del ‘fail fast’, sbaglia in fretta, più che puoi, sbaglia adesso, perché l’errore è la via più veloce per imparare. In Italia c’è paura di sbagliare, non ci si sofferma a capire, gli errori sono visti come insuccessi o peggio si cercano delle scuse.
La sfida, per dott.ssa Rulli, è quella di “aiutare gli atleti a raggiungere la miglior prestazione possibile rendendoli autonomi, fornendo loro gli strumenti per fronteggiare da soli le sfide che si ritroveranno ad affrontare”. Con queste premesse, si potrebbe dire che non è solo il basket, ma la vita che ce lo chiede. “Quella della psicologa sportiva è una figura importante a tanti livelli: se ci sono problematiche di comunicazione, per esempio, la professionista può fungere da facilitatrice tra staff e giocatori. Ma è anche una figura che può supportare gli atleti, affrontare con loro l’ansia da prestazione, la gestione dell’errore, la continuità delle prestazioni. Ancora, può aiutare nella coesione di squadra. Ci arriveremo, sono fiduciosa. Vent’anni fa l’allenatore faceva tutto, poi è arrivato il preparatore atletico. Perché ci si è accorti che piano piano la tecnica, la tattica e il fisico non bastavano più, c’è bisogno dell’allenamento mentale. Lo sport sta diventando un aspetto sempre più integrato nella vita delle persone, e anche le società sportive si stanno attrezzando con varie figure, dalla nutrizionista a persone esperte in comunicazione”.
Mind the reality
La realtà, oggi, è questa: “In A1 e A2 femminile, una figura come la mia è presente ma non ufficialmente, nel senso che gli atleti singolarmente si avvalgono di un professionista a proprie spese”. È uno dei tanti temi da affrontare nel mondo del basket femminile. Come il rapporto tra donne e professionismo, dove ci troviamo a un “punto morto. A tutti gli effetti, il basket praticato in serie A è un lavoro. In Italia, il calcio femminile negli ultimi anni ha avuto una grande ascesa: sono diventate professioniste quest’anno, quindi la possibilità c’è, ma per tutti gli altri sport la questione è stata rimandata alle singole federazioni. E la nostra deve affrontare il problema della sostenibilità economica. Sostegni e risorse che invece hanno ottenuto anche le calciatrici statunitensi, ma loro si sono proprio imposte. In Italia è difficile esporsi, vuoi proprio per le poche possibilità economiche, vuoi per un modello patriarcale che comunque continua a persistere, ma penso anche che il cambiamento debba partire da noi, dovremmo imporci di più per i nostri diritti”. Il tema dell’omosessualità è un altro, ma ci sono spiragli: “La scorsa estate la Legabasket ha condiviso sui propri canali il matrimonio tra Giorgia Sottana e Kim Mestdagh. Si è trattato di un bel segnale, perché per la prima volta ci si è esposti dall’alto”. Altri temi da affrontare: “Il doping, e quello delle scommesse. Molti ragazzini scommettono sulle partite. Bisogna fare qualcosa”.
Mind the Islands
“In Sardegna ho lasciato il cuore. Sono stati anche i primi anni fuori casa, non sapevo cosa aspettarmi. La Virtus mi ha accolto come una società famigliare, in più vivevo a due passi dal mare, un sogno per me che venivo dalla metropoli. L’Isola è stata una boccata di aria fresca e di sole, in più la stagione era andata abbastanza bene perché avevamo raggiunto i playoff. Ci ho vissuto tre anni, due alla Virtus e uno al Cus (A1). Sono sincera quando dico è stato il mio posto preferito negli ultimi anni, circondata da persone affettuose e calorose che sento tuttora, con una bella cultura e dove faccio ritorno”.
Dagli anni delle prime volte in Sardegna a più isole nel tempo della maturità: Manila, nelle Filippine, dove vince una medaglia d’oro nel 2018. “Quello che mi ha più impressionato di quell’esperienza è stato essere testimone di un scarto profondo tra una popolazione molto ricca e una estremamente povera. Si passava da quartieri extra lusso a una baraccopoli con un campo da basket, il ché mi faceva riflettere rispetto a dove eravamo noi e cosa stavamo facendo. Sul campo, è stato un Mondiale dove tutto è girato per il verso giusto, a partire dalla costruzione del gruppo, l’affiatamento tra staff e giocatrici, e tra di noi. Eravamo consapevoli di quello che potevamo fare e abbiamo portato a casa un ottimo risultato”.
Due anni dopo arriva l’occasione di una vita: le Olimpiadi di Tokyo. “Un’esperienza assurda, insana, che da sportiva ho cercato più volte di immaginare. Certo, non è stata un’esperienza totale, a causa del Covid. Ma vivere il Villaggio Olimpico, incrociarti con Luka Doncic, Federica Pellegrini, fare foto e chiacchierare, vederci tutti lì a concorrere per lo stesso obiettivo, senza che ci fosse altezzosità da parte di nessuno perché stavamo tutti allo stesso livello, condividendo uno spirito di fratellanza che è l’anima dei Giochi, è stato meraviglioso. La prima volta che ci siamo allenate in un campo con i 5 cerchi, coach Capobianco ci ha detto: Ok, fermiamoci, respiriamo un attimo, ma adesso dobbiamo far canestro. Eravamo tutti super emozionati”.
Mind the Ruls
Cosa resta dopo la lettura di una pagina su Wikipedia? Cosa ricordiamo degli sportivi quando smettono di giocare? Chi è Giulia Rulli? “Sono una donna che ha affrontato diversi infortuni e che è riuscita ogni volta a rialzarsi e trarne ancora più determinazione. Una persona che a un certo punto ha capito che il talento non sarebbe più bastato e che ha iniziato a lavorare duro in ogni club, raccogliendo esperienze preziose, di pallacanestro e di vita, non sempre positive. Una giocatrice che ha capito che la carriera cestistica a un certo punto avrebbe avuto un solo destino, quello di finire, per questo ho sempre portato avanti anche un percorso di studi. Ai giovani dico: non puntate a una cosa sola, diversificate, spostate l’attenzione su altri fronti, perché è propedeutico, ed è ciò che mi ha permesso oggi di avere una professione”. Al di là di Giulia Rulli, cestista.