Le cose che abbiamo in comune con Alessandro Werlich sono 4850, le conto da sempre, da quando mi ha detto “ma dai pure tu sei degli anni ‘90”. Soltanto lo sguardo non è proprio uguale, perché il mio normale e il suo è troppo bello.
Prendersi la licenza poetica di cantare Silvestri per parlare di uno dei giocatori più rappresentativi del basket isolano pensate sia lecito? Touchè. Le cose che Werlich ha in comune con la nostra Isola invece sono così tante che quasi spaventa, da quando poco più che ventenne approdò a Calasetta e ne fece casa, bottega, famiglia. Il Sulcis del basket si innamorò di lui, da subito, e tutti noi scrittori di storie per cestisti della sua generazione, ne subimmo la medesima fascinazione.
Alessandro partì, ci lasciò come un fidanzato fedifrago e poi tornò qualche anno dopo, vinse il suo primo campionato regionale con l’Esperia; poi da bravo Gulliver peregrinò per altri anni anche calasettani e oltre a farsi conoscere ancor di più, diventò una presenza fissa dei nostri tornei.
Una volta ho chiesto ai lettori: cosa vi piace così tanto di lui? Ricordo che un tifoso mi scrisse subito che Werlich piace molto perché è come se fosse uno di noi. Uno di noi chi?, chiesi col piglio di chi come sempre fa domande alle quali in cuor suo ha già risposto. Lo capii in un derby tra Calasetta e Ferrini, quando non giocò, si mise in mezzo al pubblico, giocò la partita da seduto, aderì perfettamente al tessuto locale, era tifoso, capitano, ultras, portava le borracce e passava lo straccio. Alessandro era ed è sempre tutto, lui che di isolano ha preso la cadenza e ha il mare negli occhi. Lo certifico io, che riesco sempre a scrutarlo in quelle rare volte che incrocio il suo sguardo dal vivo; Werlich oltre al blu dell’anima, ha altresì il dono di una testa con la quale percorre sempre il parquet del campo di basket, gioca eternamente le fasi che da guardia gli piacciono di più. Non è un caso che contro Alghero, in semifinale playoff, e contro Catania, nello spareggio che è valso la storica promozione, l’ho visto replicare una sequenza mnemonica di passi e canestri, per la quale la sua Sennori ha siglato sette punti in un minuto scarso di gara. Le chiamo Werlichate, Werlichismo in pillole, perché ho la presunzione di capire solo io il fenomeno, o almeno me la racconto così, e perché con Alessandro il linguaggio è importante, l’attenzione è fondamentale e maniacale.

Werlich è un salice piangente che ride, e in questi anni oltre a preservarne il verde della maglia che veste quest’anno e il verde della speranza che gli abita dentro, l’ho protetto sempre perché sapevo che ne avrebbe avuto bisogno; lui che si cura di non risparmiarsi mai nei sorrisi, negli abbracci, nei gesti come quello di correre incontro a Enrico Merella dopo la sua prima serie B conquistata in Sardegna con la maglia di Sennori, lui che dentro quell’abbraccio aveva tutto. C’era la vita, la doppia vita, che per Merella ha significato urlare contro il cielo e ricordare papà che ti lascia ma non ti lascia a pochi mesi dal traguardo. C’era anche la nuova vita, che Alessandro e la sua compagna Sara mi annunciano qualche settimana prima dello spareggio per la B, un po’ a sorpresa e un po’ perché il rapporto tra me e Alessandro è sempre stato questo, di confidenze inaspettate, talune volte di silenzi che non andavano interpretati forse, ma semplicemente vissuti. C’è tutto questo e molto di più in questo Werlich che non capirò mai in fondo o che ho capito solo io, e che lo mette ogni anno al centro del discorso del basket sardo. Attimi di lui, di noi, del percepirsi protagonisti anche se non lo si è perché Alessandro ti porta per mano, stringendotela forte, affinché tu non abbia paura e affronti con lui ogni campionato:
Incominciamo non dal basket allora. Io e Sara aspettiamo un piccolo o una piccola Werlich. Ora che lo abbiamo comunicato a tutti gli amici più stretti posso rendere ufficiale. Nascerà il prossimo mese di gennaio e siamo davvero felicissimi.
A trentun anni sarà padre. È doveroso chiederle se il basket sarà comunque al centro della sua vita.
«Certamente le priorità della famiglia che mi sto costruendo saranno il tema principale al centro delle mie scelte. La volontà di proseguire è chiarissima anche perché senza il basket io ad oggi non saprei vivere. È stato un anno molto bello, ma anche molto difficile e sacrificante. Il lunedì partivamo da Gonnesa, dove Sara ha casa e il suo lavoro in direzione Sennori, e il mercoledì o il giovedì dovevo spesso tornare e darle una mano, esattamente come lei ha fatto con me».
Con Sennori stagione vincente, ma difficile.
«Sì, con la spalla ho ripreso pienamente e senza sentire fastidio nella seconda parte del campionato. Forse è per questo che a un certo ho sentito che non avevo la piena fiducia e ci ho sofferto. Non mi sono sentito sempre al centro del progetto, e l’ho fatto presente. Ho meditato addirittura di lasciare tutto a metà stagione, ma Sara mi ha dato la forza di non lasciare niente di incompiuto. È stata una scelta lungimirante che mi ha premiato come giocatore e come uomo».
Ha avuto il coraggio di lasciare Calasetta. Questo l’ha motivata a non lasciare niente di incompiuto?
«Quando in estate mi è arrivata la proposta di Sennori sono andato da Marco Casula, che per me a Calasetta è stato un padre. Ricordo ancora le sue parole: ti parlo come se fossi Emiliano, mio figlio. Se lui arrivasse da me e mi dicesse di una proposta così, io sarei il primo a dirgli di andare a Sennori. La società ha capito che era un treno in cui dovevo salire. Lo hanno capito tutti, da Mario Fontana, ai compagni di squadra. Mi sono tutti stati accanto durante il recupero. Marco lo è stato anche quando nella sua posizione, molti si sarebbero girati dall’altra parte, ossia quando un tuo avversario ha un problema. Lui non mi ha mai considerato tale e per me si è rivelato importante».
A Sennori ha trovato i suoi ex avversari, e una squadra con cui è riuscito a creare qualcosa.
«Da avversario li conoscevo. Con Enrico, che era già un amico, ci siamo sempre promessi che avremo fatto un anno assieme. Con Cordedda, Puggioni c’era una grande stima e quindi ho firmato sapendo che il mio cuore, orfano del posto che per me era stato casa, ovvero Calasetta, si sarebbe addolcito di certo. È stato un grande anno dal punto di vista dei rapporti umani che sono nati. Quando è mancato il padre di Enrico, è inutile dirle che ci siamo avvicinati ancora di più. È una persona con la quale più che di amicizia, parlerei di fratellanza».
La forza di Sennori, oltre alla squadra migliore del campionato, è la sua tifoseria.
«Credo che la forza vera stia nel fatto che è un paese che vive di basket. Quando siamo tornati dal concentramento interregionale, una grande rappresentanza è venuta in trasferta e altrettanti sono venuti ad Alghero in aeroporto e poi ci hanno scortati fino al paese per la grande festa. Sembrava avessimo vinto lo scudetto (ride n.d.r.)»
Campionato dominato con venti vittorie su venti partite. Playoff con il solo inciampo di Alghero.
«La stagione regolare non ha avuto sbavature e nei playoff abbiamo fatto capire che l’obiettivo fosse quello di confermare l’esito della prima parte e vincere. Siamo arrivati in Puglia con la consapevolezza che sarebbe stato difficile ma non impossibile ottenere la promozione in B interregionale. Ci avevamo provato con l’Esperia nel 2021 ma allo spareggio avevamo perso sempre contro una compagine siciliana, all’epoca fu Messina».
Il primo tentativo ha visto il prevalere di Caiazzo. Il secondo si è concluso con il 97-71 su Catania.
«Papà e Sara erano sugli spalti a Mola di Bari. Per me è stata una bella prova e una soddisfazione incredibile, in un anno così. Non avevo mai vinto uno spareggio, giocando una partita così bella. La gara l’ho sentita parecchio, ma io sono così da sempre».
Del futuro quindi non possiamo dire nulla?
«Una cosa può scriverla, ovvero che la Sardegna sarà il mio futuro. Naturalmente sarebbe bellissimo continuare questo percorso, ma per ora devo ancora focalizzarmi su quello che sarà la futura stagione. Dico che vincerla qui è stato incredibile. Avevo 17 anni quando a Mortara vinsi il mio primo campionato di serie C e non avevo la maturità e le consapevolezze che ho oggi. Ora so cosa ha significato in tutti i sensi e non potevo chiedere di più».
Scritto da Roberto Zucca
Foto di Andrea Chiaramida